Franco Rognoni lega le forme, non volumetriche, col disegno-solenoide, in equilibri elettrici – imprigiona le autentiche grida del dolore, le annoda allo stereotipo umano, con la sua banalità e il suo orrore, alle città violentate, ai cieli violati. E quello, che all’inizio potrebbe sembrare gioco intellettuale, diventa dramma quotidiano, presenza tangibile dell’incombente catastrofe ecologica e nucleare. I volti si chinano sui paesaggi, ora beffardi nell’amara consapevolezza, ora ottusi nella loro ignoranza, ora sognanti una speranza appena espressa. Dai Cieli sconvolti cadono soli e lune in uno spazio senza volumi, dove l’alto e il basso sono arbitrari come la verità del nostro tempo. Sulle città, che talora conservano la malinconia di antiche fedi perdute, passano ombre curve, goffi pietosi omini alla Charlot, infreddoliti pendolari, femmine-maschere rutilanti che nascondono la vacuità. Talvolta i mitici vecchi paesi sono sul punto di volare verso altri reami “sulle ali della musica”, come dice Mozart: regioni in cui si vive secondo un codice di comportamento umano. Mentre i cieli precipitano, dalle città disumane esplode un fuoco d’artificio di note musicali, perché ciascuno urla-canta da solo. E il volto chino, intento a scrutare, avverte il rimpianto per l’armonia dissipata, per la naturalezza marcita. Esiste solo la frattura tra uomo e uomo, uomo e natura. anche il paesaggio si sgretola: la grande foglia dorata, che si stacca dal ramo in autunno, non è malinconia-speranza, attesa di primavera: pare morte irreparabile, perché la primavera potrebbe non tornare più, cancellata dalla stolida ferocia umana. Ma la tristezza, profonda e consapevole, è espressa con dignità e compostezza di linea-colore, l’urlo è frenato dal pudore, la protesta è compressa nel raccordo del segno con la tonalità, e perciò più penetrante nel tempo lungo, decongestionata dall’aggressività iniziale più erosiva delle apparenze di una società mistificata. Quando c’è l’abbandono all’esultanza dei colori, una linea contorta irride all’illusione, avverte che la capacità di fantasticare, di mitizzare è soffocata dai sogni prefabbricati, imposti dalla non-cultura ufficiale, dai sogni-merce, tutti uguali, come fustini di detersivo. La fantasia sta morendo anche nel bambino. Invece Rognoni sa fabulare: un quadro con dentro un altro quadro con dentro un altro ancora, perché il tempo è solo funzione di frammenti di spazio e il mito dell’umanità diventa atemporale: il menestrello può suonare davanti all’anonimo caseggiato moderno, il cavaliere può passare sul ponte della ferrovia. La fantasia creatrice di Rognoni blocca, in visione simultanea, presente e passato, l’interno della casa con la sua storia privata, e la strada, con la sua vita pubblica. Forse gli acquerelli mostrano, attraverso una parete d’acqua, paesaggi irraggiungibili, metafore di una esistenza possibile solo negli alti livelli dello spirito, le tempere appaiono più corpose. Incidono, graffiano coi rossi, col blu, coi gialli, coi verdi, ma sono ingabbiate e stregate da linee contorte, elusive, beffarde che suggeriscono realtà sovrapposte, intersecate finché lo spazio diviene adimensionale e coincide col tempo. La verità va cercata nei labirinti della psiche individuale e collettiva. Ecco lo spaccato di un paese moderno, di notte -potrebbe trovarsi anche su un altro pianeta, non importa- perché l’alienità è dentro l’essenza stessa della città fiammeggiante di bagliori ambigui, dove ogni violenza è possibile, dove ogni mostro può vivere, ma dove l’humanitas non ha la sua sede. E i cieli si scuotono, come sul Golgota, e cadono gli astri e le lune: un caos che sta per esplodere. Rognoni lo rinchiude: è quasi un esorcisma – in linee buie che rammentano il riquadro del teleschermo: vi si trasmette un giallo oppure la cronaca quotidiana. Lo spettatore, alienato, livellato, ormai robot vivente, confonde le due proiezioni. Non vive gli eventi storici in prima persona, li guarda come un film, piange o ride, secondo le prospettive, le angolazioni e i tagli, eseguiti da altri. E questo avviene su tutto il pianeta. Ecco perché Franco Rognoni dissacra il mito contemporaneo. < Indietro >
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