Franco Rognoni

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Sebastiano Grasso -1995

Occupandosi d’un artista, è giocoforza confrontarsi con la sua biografia. Possono saltar fuori interessanti scoperte. Nel caso di Rognoni, parecchie. Anche se ha fatto studi d’arte applicata, il pittore milanese s’è sempre guardato intorno. Non solo per vedere altri artisti, ma anche musicisti e letterati. Magnasco e Rouault. Ravel e Strawinsky. Dostoewsky e Mark Twain. 
Una certa attrazione si fermava, per un verso del suo carattere, ai margini d’una pittura “nordica”. Cranach. E, fra i contemporanei, Dix, Grosz, Chaad. Soprattutto per crudeltà, ferocia, cattiveria di alcune figurazioni. Ma ecco che, al momento di tradurle sulla tela, l’artista le muta in ironia. Rognoni è del ‘13. Alla pittura c’è arrivato giovanissimo. La prima mostra risale al ‘38. Di carattere piuttosto riservato, è sempre vissuto per conto proprio. 
Nei suoi primi lavori dominano il nero e il grigio. O, comunque, colori scuri (debiti espressionisti): immagini che sedimentano, impasti pittorici che rendono una certa drammaticità. Risale proprio al ‘38 - ’40 la nascita e la morte di Corrente. Molti pittori — che rifiutavano l’arte celebrativa e guardavano Ensor, Van Gogh e Picasso — si arrangiano cedendo quadri ai mercanti per quattro soldi; o a osti e albergatori, in cambio di qualche pasto e d’un letto.
Anche se vive nella Milano di Corrente, Rognoni se ne sta in disparte. Illustra il Don Chisciotte e il Decamerone. Disegna caricature per giornali e riviste. Poi, all’inizio degli anni Cinquanta, una crisi personale cambia la sua esistenza. Perché continuare a dipingere? La soluzione si presenta quando gli vengono commissionati scenografie e costumi per la Mavra di Strawinsky. Cui seguono, quasi subito, quelli per La donna è mobile di Malipiero (Scala). La tempesta di Shakespeare, Il retablo di De Falla ed altri.
Da qui, il senso dei grandi spazi e dei colori che si liberano sulla scena. Cupi, quelli precedenti; solari, quest’ultimi. «E’ il momento più felice della vita: il colore e io siamo una cosa sola. Sono pittore», può dire con Klee. Avvenuta la conversione, l’artista rimane fedele a quell’idea di pittura. 
Rivede, con occhi diversi, Magnasco (il tocco, una certa ironia delle figure) e continua a guardarsi intorno. E’ un gran sostenitore di Licini. Consiglia agli amici di comprarne i quadri. Egli stesso ne acquista due. Poi va in cima al Monte Vidon Corrado dove ritrova i paesaggi a perdita d’occhio, i cieli immensi delle Amalassunte. Di Klee gli piacciono i segni grafici con immagini incantate e misteriose; di Chagall, il sipario per il Teatro dell’arte ebraico; di Dufy, quel dipingere a colpi di fioretto, il ritmo quasi telegrafico; dei fauves, il chiacchiericcio squillante. Ma tutto ciò gli serve come pretesto. In realtà, segue il proprio istinto. 
E così tratteggia le città dei suoi sogni, le strade che si scontrano col naso dei passanti, i primi piani di personaggi che sovrastano interi quartieri, le donne che si spogliano davanti alla finestra, le periferie che non esistono. Da dove arrivano personaggi e paesaggi? Dal subconscio, dalla memoria, dove sono sedimentati. L’artista vi attinge a piene mani e li vivifica. Con sciabolate di blu, di rosso. di bianco. I colori trillano, come in un pentagramma dell’amato Ravel.

Milano, dicembre 1995