Franco Rognoni

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Alberico Sala - 1971

Alberico Sala

In cima alla breve scala dell’Annunciata, via Manzoni 44, dalla grande personale di Franco Rognoni, rinvennero le parole di Ungaretti: non tanto quelle, fulminanti, suscitate da ringhiere e balaustrate, con la brezza, piuttosto quelle echeggiate da L’isola, con il «rumore di penne», il «batticuore dell’acqua», la «pioggia pigra di dardi», la «fioca febbre» che smuntisce il volto de Il malinconico, un olio del 1939. Roberto Sanesi, autore della esauriente monografia sul pittore, ne fa il protagonista del teatro personale di Rognoni, il personaggio più assiduo del suo repertorio, l’archetipo della sua folta galleria di ritratti. Proprio Il malinconico, assente all’ingresso, istituisce un collegamento, conferma la costante psicologica, oltre che di linguaggio, con Due che guardano, del 1978, in cui le figure sono due, ma non per dividersi, e corrodere la solitudine, ma per assommarla, accrescerla. Lo spazio deputato, il luogo in cui, preferibilmente, raduna segni e colori, suono ed echi, notazioni memoriali e proiezioni metaforiche, è per Rognoni, quello della terrazza, addirittura un terrazzino di casa borghese, con la trina della ringhiera, che può suggerire l’idea di un recinto, di un limite invalicabile, che costringe, ma al quale quasi come una difesa, si può persino essere affezionati; di una gabbia in cui il solitario o il confinato può esercitare la sua quieta, silenziosa metafisica. Così il traliccio può divenire una cadenza della siepe leopardiana, con tutti i movimenti del cuore e della mente, il flusso dei pensieri e dei versi supremi. I personaggi di Rognoni sembrano cercare un rifugio, una zattera sulla quale scampare, campare, nell’immensità dell’esistenza, sia pure logorati dalla luce, ridotti a una trasparenza, a pulsazioni di colore, respiri, petali, falde, penne, sillabe; insomma, quel batticuore della materia che, come nei processi in vitro, consente segmentizzazioni, sfacimenti, agglomerazioni, metamorfosi, condensazioni fin quasi all’ideogramma, com’è accaduto al Rognoni disegnatore politico e di costume, animatore di omini bui e scalmanati, subito riconoscibili. Una materia sempre viva, proprio un tessuto con pulsioni e pulsazioni, con smagliature e spessori, giochi apparenti di collage, assonanze e prestiti da molte tavolozze, ma senza soggezioni esagerate, con molta eleganza, affettuosa ironia, liberi omaggi, fino all’impertinenza. Uomo colto e appartato, incline alla meditazione, anche nel mezzo della quotidianità, Rognoni cita e deforma, assume e arrangia, proprio nel senso musicale, ch’è un’altra delle dimensioni coinvolte dalla sua arte (molti suoi cieli grondano di note; la Bella Otero o la Taglioni, dentro decori operettistici, certi palchetti, altra versione della terrazza, ma con lo sguardo all’interno). Ma, lo scatto è di natura lirica, franta e sparsa, in tempi e luogo diversi; il processo di rappresentazione si muove, spesso, dalle quinte, o dalla buca del suggerito- re, o dal golfo mistico, dalla cosiddetta periferia (che può rivelarsi più importante dei centri canonici), dai ghirigori più lontani del labirinto uomo. Per vero, certe immagini di Rognoni appaiono immerse nella mite bufera, di neve e candida polvere, che s’a- gita dentro le bocce devozionali di certi santuari lombardi, con apparizioni di santi, madonne, scarni elementi di paesaggio, o architettonici. È la proposta preziosa del cantastorie colto, musicale, che insegue una dimensione ideale, oltre le esperienze, anche altrui, e le tentazioni del concerto più vasto dell’arte contemporanea. Le voci ascoltate e filtrate sono molte, culturalmente legittimate, anche dai versanti dell’ideologia. Sanesi le registra con le opportune decifrazioni: EI Greco e Magnasco, Cézanne e Picasso, Rouault e Matisse, e poi Klee e Chagall, Grosz, circhi e teatrini, stanze e strade, simulacri e fantasmi. Un appunto impressionista può diramare fino all’informale, e al neofigurativo, a una sorta di sudano affrescale, come se ne incontra, a dovizia, nelle chiese e cappellette del lago sul quale Rognoni spartisce le proprie stagioni. Ci viene incontro la sagoma raffreddata, ingrigita (la materia che, dall’avvio degli anni Settanta, si farà sempre più severa, si rapprende perfettamente al momento etico e sociale, all’osso della poesia), de Il pendolare, nel quadro spezzato, dimezzato. Un altro nome da verificare, non solo per i fermi baglio r cromatici, certi blu e certi rossi, ma per l’intensa allusione segnica, sembra quello di Osvaldo Licini. Una suggestione in più, nel mondo candido e fermentante, minacciato, e consolato da rosee nubi muliebri, di case frananti e fiori essiccati, strumenti di vita e di morte, richiami e memento (piccolo abat-jour, e Cardinale danzante, in una fonda aria seicentesca), orchestrata da Franco Rognoni, milanese, classe 1913.

(«Corriere della Sera», 15 febbraio 1981)