Il tema della città, rivisto attraverso lo schermo deformante della memoria o ripreso dall’osservazione quotidiana nei suoi aspetti più reali, esercita una costante suggestione, interpretato, in modo polemico, come rapporto dell’uomo con l’ambiente, o composto nell’oscurità notturna alle rare luci spettrali delle lampade o colto nel ritmo dinamico di una vita che travolge uomini e macchine in un vortice di attivismo insensato. È un tema che esige la partecipazione totale dell’artista, inserito in quel ritmo ossessivo, nel cuore stesso della modernità, con le sue allucinazioni o eccitazioni aberranti. Allora la città è rappresentata come un’onda di. energie represse, che si scatenano e si fissano nei motivi più tipici del tempo: quelli attribuiti alla civiltà dei consumi e divulgati dovunque, simboli di una comunicazione visiva sempre più rapida ed efficiente nei mezzi di riproduzione meccanica. Quei simboli pubblicitari riassumono la storia del gusto di una società che non ammette l’evasione o la fuga, che impegna alla collaborazione collettiva, a una specie di omertà culturale di massa. Ci si domanda se la civiltà dei consumi riconduce davvero l’uomo moderno ai paradisi lucidi dell’infanzia, a un ottimismo che si tramuta in fiducia incrollabile nei prodigi della tecnica e della scienza. Così l’uomo d’oggi accetta questo nuovo mito, imposto dal razionalismo moderno, e accetta quindi la città anonima, senza volto, che lentamente distrugge l’antica, o la trasforma in parcheggio rumoroso. Quanto s’è detto potrebbe far credere all’impossibilità di un rapporto diverso da quello sommariamente indicato, e che sembra escludere la contemplazione, che è un altro modo di partecipare, ma per le vie della libertà interiore, al di fuori di ogni imposizione ricattatoria dei massmedia, dagli slogan radiofonici e televisivi a quelli artistici e letterari, falsamente «moderni». La contemplazione è il modo d’essere del pittore Rognoni, se ho bene interpretato il senso di una sua frase del 1961:»...dopotutto un fiore è ancora un fiore anche per l’astronauta», che a me pare la chiave per ricostruire la sua personalità artistica e umana, per definirla dalle confessioni più attendibili dei suoi dipinti. La contemplazione è, per Rognoni, un modo di avvicinare la realtà, anche nei suoi travestimenti più segreti: l’unico modo per penetrare nei suoi labirinti misteriosi, attraverso un processo, nel medesimo tempo, visionario e obbiettivo. Rognoni deve essere amico della solitudine: un uomo che pensa e che cerca, senza lasciarsi distrarre dal fastidioso rumore della modernità a ogni costo, ma che vuole comunicare col mondo, dal suo sereno rifugio sui lago; e comunicare significa, prima di tutto, riconoscersi nelle immagini create, in questo caso, stimolato dai pretesto visivo della città, dell’ambiente fisico e morale della città. Essa diventa il motivo di una lunga serie di fotogrammi, che raccontano i vari momenti di una stessa storia, di una condizione spirituale, incline al sogno, all’abbandono di fronte agli aspetti, meno consueti, di una specie di costruzione scenografica a più piani, sullo sfondo del cielo notturno. Si direbbe che Rognoni si mette in moto quando si accendono le luci, e i fari elettrici appaiono come lumini, piccole stelle che brillano sui profili oscuri delle case, dei palazzi, delle cattedrali, grumi di costruzioni apparentemente abbandonate e immerse invece nel sonno, nell’assenza degli uomini resi invisibili da quella opaca parete, tanto simile alla morte.
(Catalogo Galleria Annunciata, 1970)
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