Franco Rognoni

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Luigi Carluccio - 1970

«Quel che voglio rendere nel quadro, e non solo da oggi — ha scritto una volta lo stesso Rognoni — è il senso della coesistenza, nel tempo e nello spazio, delle cose che affiorano dal fondo della memoria secondo una prospettiva ideale di natura fantastica. Per questo mi servo di un linguaggio figurativo, che pur valendosi di esperienze formali del mio tempo, mi permetta di comunicare in modo immediato con gli uomini del mio tempo. Perché è proprio questo poter raccontare, ciò che mi importa soprattutto. Non mi piacciono le torri d’avorio, il linguaggio contorto, gli spasmi viscerali di certa, di tanta pittura». Coesistenza, memoria, fantasia, racconto, comunicazione; queste parole caratterizzano i motivi dell’immaginazione di Rognoni e nel tempo stesso la strumentazione attiva, ciò che si dice “il linguaggio” dell’artista. Riconducono, anche una certa luce sugli anni in cui il pubblico ha conosciuto Rognoni soprattutto come disegnatore per giornali. In una serie di “coesistenze” anche il linguaggio di Rognoni è frutto di una coesistenza. Il suo timbro poetico è dato da un sentimento di felicità, anzi di incantesimo di felicità, percorso e forse anche minato da alcuni brividi amari e da vene di malinconia quasi ironica che però non arriva mai alla distruzione dei suoi personaggi, anche se sono emblemi, simboli, forme allegoriche, ma arresta le sue definizioni plastiche sul limitare del meraviglioso, dove del meraviglioso si può avvertire l’alba incombente, nella luminosità dello spazio e nella distensione dello spirito. Il linguaggio di Rognoni possiede dunque spontaneamente una piccola malizia, un senso del “divertissement”; proprio nel suo andamento grafico di tratti vibranti e di incisioni sottili, frantumati e ricollegati sui battiti di una pressione del sangue e della memoria. E, tra le molte risorse figurali del nostro tempo, che il suo atteggiamento così incline ad ammonirci «dopotutto un fiore è ancora un fiore anche per l’astronauta», vuole evocare, possiamo riconoscere il muro palpitante sotto la luce radente, che irrita l’intonaco e stacca le immagini con la leggerezza e la decisione dei graffiti, che sovente appare nell’opera di Dubuffet; come un paravento tra la realtà della fantasia e la realtà oggettiva. Quanto ai tempi, ai motivi del raccontare di Rognoni, ci pare che essi siano tutti incentrati su un sentimento di stupìta adesione all’esistenza, o su una stupìta presa di coscienza dell’esistere; esistere, al centro di un mondo nei limiti del quale l’esperienza quotidiana non ha sbarrato tutte le porte e tutte le finestre e quindi tutte le prospettive di fuga, di evasione verso le regioni del sogno, o della “rêverie” a occhi aperti. L’uomo può, anzi deve volare, verso un punto dello spazio, un punto fisico e fantastico, dal quale il cumulo pesante delle case di una città può apparire come una finzione da presepio; il groviglio umano e disumano delle strade come un non-sense ai limiti del burlesco e le figure e gli oggetti ammiccano soltanto, attraverso uno schermo di garze che attutiscono i rumori e svuotano i gesti. Volando nello spazio verso l’altra faccia della luna, la felicità delle scoperte, tra le quali la più eccitante sembra l’assenza di peso che consente volteggi e acrobazie meravigliose, l’uomo trascina dietro di sé lunghi, lenti nastri colorati, corolle, piume leggere di malinconia. Quasi che in questo straordinario “embarquement pour Cithère”, Rognoni, con le sue cronache, volesse farci sentire anche il senso doloroso di strappo dagli affetti terreni, dalla verità della vita e dell’esistenza comune.

(Catalogo Galleria Annunciata, 1970)