L’opera di questo pittore appare nell’insieme, varia nelle strutture, nelle forme, nei temi, nella scrittura. In una cifra riassuntiva, potremmo dire che si tratta di un’opera pittorica non tanto diacronica (verticale), quanto sincronica (orizzontale): prevale cioè il flusso temporale, la spinta centrifuga, il gioco dei rapporti (le relazioni con la musica, con il teatro, con le immagini stesse della letteratura). Franco Rognoni è un pittore non storicista, ma più di archetipi: dove il linguaggio artistico è più ricco dell’esperienza sensoriale, empirica. La presente monografia ha inteso documentare il giro dei registri, della poetica, più che stabilire un impianto storiografico di un percorso artistico. Certo potremmo riconoscere una linea interna di svolgimento: da un periodo iniziale, all’aprirsi di un racconto pittorico, agli ultimi anni dove maggiormente prevale un gesto essenziale di sintesi pittorica. Ma la cronologia, in termini di espressività, non appare a posteriori un dato sintomaticamente rilevante. La cronologia dei suoi temi appare reversibile proprio perché legata all’orizzonte interno della temporalità, sia pure nell’interferenza e nell’attrito con la cultura di innumerevoli stimoli linguistici. Nel ripercorrere quest’opera pittorica, continuamente abbiamo messo in luce l’originarietà di un dualismo formale che non è di natura, quanto invece di esperienza creativa: la differenza e la reciprocità fra segno e colore; fra il narrativo delle città e il registro più lirico delle Venezie o dei fondali di lago; fra un’accentuata coscienza linguistica musicale, ma anche un sottofondo più irriflesso o evocativo. Una relazione di eros e linguaggio. Del resto a qualsiasi punto entriamo in un momento della sua opera, noi avvertiamo quel dato di riconoscibilità the è un protendersi al timbro, alla voce, a quel margine di condizione, anche irriflessa, che è il segno di un’individualità artistica. Con semplicità, quasi con atteggiamento di ovvietà, Franco Rognoni, in un incontro nel suo studio, mi ha detto: «Non ho dipinto nulla dal vero». È stata questa affermazione il suggerimento per leggere la sua pittura nel punto centrale di interpretazione, nello svolgimento e nella reversibilità delle sue forme. Con scrittura densa, a illuminazioni, Jacques Derrida, nel suo libro La verità della pittura, parte da un’affermazione di Cézanne, contenuta in una lettera: «Io vi devo la verità in pittura, e ve la dirò». È una frase non referenziale, non dice nulla. Si invera nell’autorità e nell’evento stesso della pittura di Cézanne. Una verità senza velo, senza artificio, senza maschera, nella forma di essenza ed esistenza, come un istante del mondo nel declino dei simboli. Derrida gira attorno a questo motto di Cézanne, mostrando il “dentro” e il “fuori” della pittura, la verità ma anche l’illusione della scrittura, la ferma verità del quadro, ma anche il contorno vuoto di un semplice passe-partout, cifra non trascendentale, ma “struttura mobile” nel far apparire l’immagine, la figura, la forma, il sistema di linee e di colori. Forse non è estranea, nell’opera complessiva di Franco Rognoni, una concezione della pittura come scrittura, al di là del racconto, al di là del l’autore. Una scrittura che attinge ai segni, alle narrazioni smarrite tra le ceneri della cultura, nello svanire oggi della storia. O forse, per un pittore che afferma di non aver «dipinto nulla dal vero», e d’altra parte di non essere stato mai tentato, nemmeno una volta, di dipingere un autoritratto, la pittura è lo sguardo che sulla soglia oscillante cerca la presenza sfuggente, tenta di ricondurla all’immagine. Le figure femminili in un interno, i suoi uomini, le città, le periferie, i blu delle lontananze; la sua pittura è la frase infinita di un autoritratto.
Milano, dicembre 1997
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