Franco Rognoni

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Massimo Carrà - 1972

L’ironia è pudore, ha scritto una volta Alberto Savinio. E precisava: «nella pittura l’ironia tiene una parte importantissima allorché la coscienza dell’artista raggiunge un punto massimo di chiarezza». Mi sembra che alla luce di questa intuizione si possa trovare la chiave per comprendere con plausibilità sufficiente toni e motivazioni della pittura di Rognoni, in quella componente ironica, sottile e un po’ melanconica, che ora più ora meno affiora in quasi tutti i suoi quadri. Per comprendere — voglio dire — i meccanismi più intimi al di là di un’apparenza fin troppo facile, al di là della favola, della divagazione fantastica, dell’arabesco bene azzeccato. Cioè, oltre quella cortina di elementi tutto sommato collaterali o complementari che lo stesso autore sembra lasciar venire avanti a intrigo del destinatario dell’opera. Rognoni, che ha uno spessore umano di ben altra portata, come per pudica autodifesa di un proprio segreto modo di essere (in fondo, pessimista, amaro e disincantato) trova in questa rappresentazione sorridente e apparentemente svagata, la possibilità di deformare in qualche maniera meno esplicita e perciò più accettabile il rapporto fra sé e la realtà delle cose. Un rapporto che invece io credo percepito intimamente con un massimo di sconcertante chiarezza. Tutto questo, allora, è pudore di sentimenti, ma è anche civilissima discrezione di un uomo che medita e giudica aborrendo da ogni sopraffazione sugli altri. Meditazione e giudizio che traggono spunto da un impatto per nulla pacifico col dato oggettivo, con tutto ciò che in qualche modo tocca lo spirito del pittore irritandone la sensibilità sempre all’erta, con l’effetto particolare di dar luogo a una sorta di scommessa fra l’artista e la sua fantasia. Osservazione consapevole, lucida, e quindi (come per una reazione al di là del consueto e del prevedibile) un succedersi di scatti dell’estro immaginativo: ecco i due momenti complementari del rapporto che si istituisce fra Rognoni e le cose sui quale interviene subito l’ironia a mimetizzarne le tensioni drammatiche. Ecco, infine, un’idea di pittura aperta a tutte le sue facoltà d’invenzione rappresentativa, a tutte le declinazioni più congeniali verso un racconto di immagini che trasfiguri la realtà in un libero espandersi di ipotesi tra sogno, allusione o rimando analogico. Ed ecco di conseguenza farsi precario il limite tra elemento oggettivo, surrealtà e favola. Che poi, se vogliamo, non è più un’idea soltanto pittorica, ma è una visione perplessa del mondo e dell’uomo in quel contesto di ambiguità e di incertezze che è proprio della sua condizione vitale. E così, via via che il discorso di Rognoni procede, mi sembra sempre meglio avvertibile la sua consapevolezza di una posizione che è morale prima di essere estetica. In tale senso il tema ricorrente della città e dei suoi personaggi nelle opere più recenti si apre a tutta una mitologia di allusioni, quasi di «mostri» suggeriti con garbato riserbo ma non per questo meno inquietanti: tali da penetrare per incidenza mediata (e tramite appunto fantasia e ironia) nel giudizio che il pittore si fa delle cose, condizionandolo, colorandolo, alterandolo con un sospetto di allarme, pronto a tradursi — diciamo così — in un’ombra, in uno sbattere di ciglia nella rappresentatività dell’immagine.

(Catalogo Galleria Annunciata, 1972)